LA VISIONE OPPOSTA
Fulvio Rinaldi dipinge figure, paesaggi e nature morte come fossero “negativi a colori”.
Per non pensare che questa sia una ingenua scelta di maniera, un mezzo per darsi una riconoscibilità a buon mercato, bisogna credere che le ragioni che lo inducono ad esprimersi così affondino le loro radici nelle emozioni rimosse di un antico passato, e che in quella forma trovino un mezzo adeguato per emergere, per dirsi e per agire in forma liberatoria.
Immaginare che tali dipinti partano dalla realtà per agire, poi, come elementi evocativi di antichi vissuti emozionali, è quasi cosa ovvia; meno ovvia invece, è la necessità che ha l’autore di “tradurre in negativo” tutto ciò che dipinge, come se solo questa fosse la lingua che gli permette di rivisitare il passato, la chiave d’accesso alle emozioni più profonde, quelle capaci, se attivate, di liberare essenze di un vissuto da riportare in superficie, trasfigurato da un fare analogico, ma senza che nulla ne vada perduto.
Questo passaggio trasforma tutti i soggetti dipinti da “positivi” a “negativi”, e fa assumere loro una valenza tonale che abbassa le frequenze della fruizione, induce a letture pacate, a quiete assimilazioni, come se solo un simile stato d’animo permettesse l’incontro con ciò che l’autore vuole mostrare di sé.
A questo si aggiunga il fatto che il modo che egli si dà per impostare il disegno svela il suo carattere “culturale”, il suo essere “alla maniera di…”, come se anche questo aspetto fosse necessario per porre tra sé e lo spettatore un ulteriore filtro, un altro diaframma in grado di rendere ancora meno comprensibile il modo con cui viene trasmessa l’essenza dell’opera.
Naturalmente il “mentale” ha solo la funzione di occultare per un po’ il “naturale”, di nasconderlo, forse, per pudore, per timidezza per paura di essere troppo svelato, troppo capito, per il timore di un’eccessiva “messa a nudo” dell’autore.
Le opere di Rinaldi si prestano, per questo, a più letture: ingenua, se il lettore lo è; complessa, se lo è meno. Le sue opere appartengono, allo stesso tempo, sia al mondo ingenuo dei pittori “innocenti”, sia a quello che si potrebbe definire degli “evoluti”, più colti e smaliziati, quelli che operano nell’ambito della citazione e che fanno di ogni elemento rappresentato un mezzo per occultare la realtà, per esprimerla solo a livello culturale, disseminando la rappresentazione di infiniti trabocchetti, di inganni che inducano a pensare ad altro, ben consapevoli che nel mondo tutto ciò che è rappresentato è ben diverso da ciò che si vuoi significare.
Mi sembra che l’opera di Rinaldi si avvalga, dunque, di questo doppio registro: da una parte la coppia “positivo-negativo”, con funzione evocativa sul piano emozionale; dall’altra, invece, la coppia “naturale-culturale”, con la funzione, più o meno cosciente, di renderne meno facile la comprensione, per meglio tutelare il vissuto più intimo dell’autore.
Quale dei due sia l’aspetto preminente è cosa impossibile da definire: entrambi vivono e si mostrano contemporaneamente, ed entrambi esigono uguale attenzione; solo che, mentre l’uno giunge a ragione, l’altro arriva diretto ai sensi, e in questo continuo alternarsi si determinano le condizioni di una messa a fuoco instabile, che è ciò che sta alla base del meccanismo che caratterizza ogni opera d’arte.
Rinaldi è un artista ingenuo e complesso insieme, naturale e culturale insieme, e questo rappresenta la vera cifra connotativa della sua opera: la misura di un fare che non è solo intellettuale, ma che è anche permeato di “innocenza”, e che ha scelto la pittura come mezzo congeniale per raccontare dell’uomo, dandosi con emozione e onestà; solo che, per poterlo fare fino in fondo, l’artista deve poter occultare, in parte, ciò che svela .
Gi.Gori 14 giugno 2006